Coronavirus: cosa ricorderanno i bambini più piccoli e come reagiranno a settembre?

Per mesi hanno vissuto in un tempo sospeso, separati dai nonni e dagli amichetti dell’asilo. Quali reazioni avranno quando torneranno a giocare al parco o incontreranno le maestre a scuola? E quali ricordi (e paure) resteranno di questa esperienza?

Per i bambini piccoli, dagli uno ai quattro-cinque anni, come sarà la vita dopo il Covid? Troveranno strano un mondo di gente non più «in maschera»? Di nonni che si ripresentano a casa? Di nido e di asili che riaprono i battenti? Di amichetti che si possono di nuovo riabbracciare? Saranno felici di tutto questo o li spaventerà? Che ricordi conserveranno di questo stranissimo periodo? Chiarisce subito le idee il pedagogista Daniele Novara, autore di Organizzati e felici (Bur Rizzoli) un vero manuale per genitori «educativi».
«Fino a quattro anni i bambini non hanno ricordi, o almeno ricordi come li intendiamo noi adulti. E cioè una memoria cognitiva, consapevole, narrabile — spiega — Sino a quell’età il bambino è estremamente “sensoriale”, i suoi ricordi passano attraverso i cinque sensi. Non attraverso il pensiero e la ragione».

Dopo mesi di assenza quali emozioni e sensazioni susciteranno in loro nonni, amici, insegnanti?

«Se le esperienze vissute in precedenza con loro sono state positive vivranno con gioia il nuovo incontro. E poi pure i bambini molto piccoli sono in grado di riconoscere visi già visti e “sanno” a quali emozioni sono collegate: di gioia o di paura. E me lo conferma l’esperienza personale: i miei due nipotini, di due anni e mezzo e di sei, sono stati lontani fisicamente per mesi anche perché Covid ha colpito pure me. Mi vedevano e mi parlavano solo attraverso lo schermo di un computer. Senza che ci potessimo toccare, abbracciare, per loro ero un videogioco, un cartone animato più che un nonno. Ma è bastato rivederli perché tutto tornasse come prima. Il problema è stata la fase intermedia: nonno guarito, ma che non poteva andare a trovarli. Questo sì che li ha sconvolti: si erano abituati a un nonno assente perché malato, ma che cos’era un nonno guarito ma ugualmente assente? Questo dice molto sul modo di reagire dei piccoli allo stesso tempo abitudinari ed estremamente “plastici”».

Sembra una contraddizione.
«Ma non lo è. Da un lato i bambini per riuscire a diventare grandi debbono affidarsi a quello che già conoscono, l’ignoto può sempre essere fonte di pericoli; dall’altro debbono abituarsi rapidamente ai cambiamenti per poter sopravvivere ai cambiamenti, soprattutto se imprevisti. È in questa duplicità che sta la loro forza».

Se riprendere i contatti con i nonni sarà una cosa facile, altrettanto si può dire di quelli con gli insegnanti?

«Se gli insegnanti prima erano accoglienti e i rapporti con loro buoni, continueranno a esserlo e i bambini desidereranno riprendere a frequentare nido e scuole. Non solo è venuto loro mancare il contatto con i pari di età – e questo vale già per i piccolissimi di un anno e mezzo, due – ma tutto il mondo della comunità scolastica con i giochi, i materiali, gli spazi che li aiutano a crescere. Quelli che avranno bisogno di un reinserimento saranno piuttosto i genitori abituati ormai ad avere i figli piccoli sempre accanto e che potrebbero vivere con ansia il distacco, specie gravati, come saranno, da preoccupazioni per la loro salute».

Non saranno anche i bambini a rimpiangere un periodo in cui avevano i genitori tutti per loro, in una specie di insperata stagione lontana dagli impegni della quotidianità?

«Dipende. Se ci si ritrova a vivere in 50 metri quadrati e non si può uscire, dubito che questo sia stato vissuto come un periodo gioioso. Per non parlare del fatto che per un bambino è molto difficile accettare un genitore che è presente – fisicamente – ma anche assente perché deve lavorare da casa e non può essere disturbato per ore. Peggio pure se i genitori erano degli ansiosi e mandavano messaggi contraddittori del tipo: “andrà tutto bene” e poi erano ossessionati dall’igiene o tenevano la TV perennemente accesa su qualche “Canale covid”. Oppure, ancora, se consideravano in pericolo il loro lavoro o addirittura l’avevano perso. Questo è stato di sicuro un momento molto duro per i più piccoli, e ancora di più per i bambini di sei anni costretti in casa proprio in un momento in cui esplode il bisogno di socialità».

Altro che parentesi felice, allora?
«Anche nella migliore delle ipotesi, è venuto a mancare il movimento (pochi hanno a disposizione giardini privati) ed è attraverso il movimento, la fisicità e la sperimentazione che i bambini imparano. Ed è venuto meno il contatto con i “pari” (i fratelli spesso hanno età molto differenti) che attraverso il confronto, e anche il conflitto, permette di crescere imparando ad affrontare la frustrazione e ad accettare le regole. In una parola a inserirsi nella società».

Quali rischi abbiamo corso con i bambini?

«Il rischio è stato quello di trovarsi di fronte a bambini spaventati più che dalla situazione dal vedere spaventati i loro genitori. Questo può aver portato a regressioni – ciucci o biberon abbandonati da tempo e ora ripresi, rifiuto del “vasino” – e, più in generale, a un rallentamento nell’evoluzione del movimento e dell’autonomia. Sono stati mesi di black out per tutti, ma soprattutto per loro: la crescita si è bloccata. Adesso hanno più che mai bisogno della compagnia dei coetanei, di tempo per dare un senso alle emozioni vissute e per riprendere coraggio e fiducia negli altri. Insomma per tornare a fare i bambini».

Nessuna paura di tornare alla «normalità»?

«I bambini non vedono l’ora che ci togliamo le maschere. Cosa importa che si ricordino di come eravamo “prima”? Una bocca che sorride, uno sguardo non nascosto dagli occhiali scuri sono fonte di piacere. Come fa un bambino a innamorarsi della mamma se non la vede in faccia? E sappiamo che questa è una fase fondamentale della crescita anche se poi andrà superata. Quanto a nidi e materne, inorridisco quando sento parlare di far tornare in classe i bambini separandoli con barriere di plexiglas. Ma invito a riflettere sui dati dell’epidemia: i bambini molto piccoli si ammalano piuttosto raramente, hanno sintomi come vomito e diarrea che durano pochissimo. Misurare la temperatura a chi entra a scuola ridurrebbe ulteriormente i rischi, una precauzione per altro da adottare sempre per evitare che bambini, anche con una banale influenza, contagino i compagni».

Articolo di Daniela Natali per il Corriere.it